sabato 10 febbraio 2018

Ogni complegatto è importante

Era da un po' che non venivo a trovarvi. Sono stata impegnata in realtà: la vita da gatto è una cosa seria e occupa gran parte della mia esistenza. Non mi starete dicendo che non avete la più pallida idea di chi io sia, vero? Dovrò mica ripresentarmi?
Incredibile una tale inettitudine dilagante. Ma l'evoluzione non ha partorito umani intelligenti? Ci vuole pazienza, ci vuole taaaanta pazienza.

Eh, va bene! Lo farò.
Ma solo perché sono una gattina dolce, amorevole, perfetta, generosa, magnanima, puffolotta, bellissima, giovane, splendida e assolutamente tra le più umili gatte che esistano nell'intero universo felino.

Mi chiamo Miu. Pietà, non chiedetemi perché, è il mio nome e basta. Me l'ha appioppato la mia amata MamiR, quella goffa, che un po' crede di essere un gatto, ma manco pe gnente. Quella che ha gli occhi celesti come mia sorella, il Ratto; quella bassa insomma, che non ha la più pallida idea (ancora) di cosa significhi sculettare con eleganza, ammaliare con le fusette, saltare come una divina pantera.

Io, fortunatamente, l'altezza l'ho presa dal mio meraviglioso PapinoF, longilineo e maestoso, così come dovrebbe essere un essere-non-gatto. Sì, il mio preferito... e sì, lo voglio dire, perché oggi è il mio giorno. Oggi sono più gnocca del solito. Oggi sono la Regina incontrastata del Mondo intero.
Oggi è il mio compleanno e nulla potrà andare male.
Prosciutto, pesce e carne... colazione, pranzo e cena. Non male, eh?
Ok, e allora? Dov'è 'sto pesce, che qua s'è fatta ora?
E niente, volevo solo ricordarvi la mia assolutamente eccezionale meravigliosa esistenza, da quando venni trovata nel motore dell'auto di papino a ieri praticamente... e via con le immagini.


Infine, prima di lasciarvi, è giusto sappiate anche che sono stata una batuffola dolcissima, tra le più coccolose, tra le più commoventi... insomma tanti auguri a me, che oggi ompio 5 anni, ma che ora come allora riesco ad affascinare tutti i presenti con luminosa grazia felina.
Miao, gente. Miao.
Mewmewlù


martedì 9 gennaio 2018

Le prime volte

La prima volta che sono salita su una bicicletta per grandi avevo 8 anni. Il mio compleanno sarebbe arrivato dopo un paio di settimane e, capitando in pieno agosto, il regalo mi era stato recapitato prima, dato che poi saremo partiti per le vacanze.


E così, scesi giù nel parchetto con il mio papà, quella domenica, e lo implorai di insegnarmi ad andarci. La bici aveva il manubrio gigante, la scocca rosa e bianca, un cestino davanti lucido e perfetto, il campanello con il suono più dolce che avessi mai sentito. Soprattutto, però, era alta. Non riuscivo a toccare con i piedi a terra! Oddio! Come avrei fatto a farla star su senza poter poggiare i piedi e senza ruotine laterali? No, no, quelle erano per bimbi, io ora ero grande.



"Nessun problema", disse mio papà. "Ti tengo io, mantenendo il sellino. Stai tranquilla e non aver paura. Non ti lascio."
Nulla di più semplice. Salii in sella alla mia bici nuova e sentii forte la stretta di mio padre, quindi camminai sicura lungo tutto il viale e quando mi avvicinai al cancello, frenai e misi i piedi a terra nel modo più naturale: tanto c'era il mio papà a tenermi!
Felice come non mai, mi voltai e gli chiesi se avessi potuto provare senza che mi tenesse. Fu in quel momento che mi accorsi che lui era laggiù, alla partenza, e che quel lunghissimo tratto io lo avevo già percorso da sola.



Il mio papà aveva fatto una magia. Era stato con me. Giuro! Io lo avevo sentito mentre camminava assieme a me. Davvero, cavolo! Lui era stato lì in ogni secondo, non avrei avuto ombra di dubbio, se non mi fossi girata a guardarlo.









La prima volta che ho viaggiato da sola in treno avevo 18 anni.
Sono cresciuta in un parco ai margini di una grande città. Periferia che ha sempre offerto scuole vicinissime a casa. L'asilo era a 200 metri, le scuole elementari a 300, le scuole medie sul lato opposto della strada rispetto alle elementari, il liceo a solo un chilometro. Insomma, tutto a portata di mano, tutto ragionevolmente vicino e utile.
Superando il test d'ingresso alla Facoltà di Psicologia, invece, misi circa 35 chilometri tra casa e Università. E così, l'unico modo per raggiungere in tempo ogni mattina le aule dove si tenevano i corsi sarebbe stato un bel regionale.







Il viaggio aveva una durata di 20 minuti esatti e il primissimo lo feci da sola. Il primo biglietto, la prima fila interminabile, la prima calca del mattino, la ricerca del binario giusto, l'attesa oltre la linea gialla, la voce calda e accogliente che avvisava dell'arrivo del treno, la gente, gli odori, i caffè, i bambini, le urla, i posti in piedi, i controllori arrabbiati, gli studenti con i libri.
Io. Da sola. Con gli occhi più grandi di sempre. Curiosi e affamati di cosenuove.






Dopo quel primo, decisi che "No, alle 7 non si può partire, c'è troppo casino. Da domani alle 6 in stazione e sarò sempre la prima". Così fu, in effetti, per tutti gli anni a venire. Gli abbonamenti acquistati all'apertura della biglietteria, la stazione sonnacchiosa, il binario 4-sempre-quello, la puntualità del trenino elettrico e silenzioso, la voce calda e accogliente che ne avvisava la partenza, due o tre avventori al massimo, odore di disinfettante, il mio secondo caffè, il silenzio, tutti posti a sedere tra cui scegliere (metà carrozza, finestrino a destra, contromarcia), i controllori gentili, i miei libri.










 

La prima volta che ho deciso di lasciare la casa in cui ero cresciuta per trasferirmi in un'altra città avevo 23 anni.
Mi ci erano volute poche settimane per decidere e, così, quasi all'improvviso, chiusi in una piccola valigia celeste tutto l'essenziale, tutto ciò che mi sarebbe servito, e partii.
Presi il treno alla mia solita stazione, questa volta al binario 2, una voce calda ne annunciò l'arrivo e il mio posto era prenotato accanto al finestrino, contromarcia.
Il viaggio durò 8 ore e mi portò in quella che sarebbe stata la mia casa per i successivi 10 anni, e che lo è ancora oggi.
In valigia avevo un asciugacapelli da viaggio, di quelli piccolissimi, quasi giocattolo. Non era mio. Mi era stato prestato dalla mia migliore amica, la compagna del liceo, quella del cuore. Roba importante, insomma. "Eh poi, vabbè, te lo restituisco quando torno" le dissi.










Poi lei è partita, si è trasferita in una città ancor più lontana. Mi hanno detto che si è sposata. So che ha due bambini. E, beh, il suo asciugacapelli da viaggio è ancora qui che fa da giocattolo a una vita lontanissima.
Le strade si dividono, i sentieri sono limpidi e pieni di possibilità in entrambe le direzioni. Solo che io ho scelto di andare da quel lato, la strada in alto a destra... e lei, chissà.












La prima volta che ho visto la neve avevo 33 anni. Qualche settimana fa, in realtà, poco dopo Natale.

Sono stata in un posto che non saprei descrivere. Che non vorrei nemmeno farlo, perché quel che ho visto è talmente prezioso, che dargli voce significherebbe rovinarlo.
C'è un luogo, al di là di questi occhi, che ha riempito la mia anima di silenzi sconosciuti. C'è qualcosa di così grande e così bello e così meraviglioso in questa natura, che può commuovere, ispirare, sanare tutto ciò che di frammentato e rotto portiamo dentro.

Le mie prime volte sono fotografie indelebili del cuore.
E vorrei ricordarle come si ricorda il piatto che preparava la nonna e che solo lei sapeva fare. Come si ricorda il cielo visto dalla propria cameretta. Come si ricorda quel modo così buffo di camminare che aveva l'amica del cuore. Come si ricorda la stretta magica del papà ad accompagnare i primi passi della vita.

E mi sorprendo ogni volta di questo privilegio. Quando il tempo è caro amico delle ultime, trovare ancora un modo per scoprirne di nuove.